lunedì 30 marzo 2015

Mieloproliferative croniche - Nuovi traguardi della ricerca e dell'informazione

Paola Guglielmelli
Giovanni Barosi
"Credo che l’informazione  sia uno dei primi bisogni  del paziente con una malattia mieloproliferativa cronica e credo che  la nostra associazione si debba caratterizzare per cercare di rispondere a tale bisogno".Così Giovanni Barosi, direttore scientifico del Centro per lo studio della mielofibrosi del San Matteo di Pavia
sintetizza la mission  dell’Aipamm (Associazione ne pazienti con malattie mieloproliferative croniche di cui è presidente e che considera “non come  qualcosa di collaterale alla mia attività professionale, ma piuttosto come  un suo prolungamento". E questo non perché, chiarisce, non ci sia competenza o abitudine della scienza medica a rispondere a tale bisogno ma per inevitabili limiti di tempo :"Una prima visita dura in media oltre un’ora  ed il quaranta per cento del tempo lo dedichiamo a parlare. Non basta. Il paziente va a casa e continua a farsi delle domande che non ha fatto oppure che ha fatto  ma non è convinto della risposta”.
Informazione in generale e informazioni sulle nuove conquiste della ricerca nel campo delle malattie mieloproliferative croniche  sono state al centro  della  tavola rotonda Nuove prospettive terapeutiche nelle malattie mieloproliferative  con cui è stata inaugurata la sezione Toscana dell’Aipamm e che ha costituito un'occasione d'incontro tra ematologi e pazienti affetti da questo gruppo di neoplasie ematologiche rare.
Far girare le informazioni, non i pazienti -   Proprio tale "rarità" è per buona parte causa di  una
costante esigenza di nuove informazioni da parte dei pazienti che li spinge spesso a consultare più specialisti anche  in città lontane da quelle di residenza."A Pavia vediamo pochi pazienti di Pavia e del circondario" spiega Barosi"perché sono poche le persone affette da mielofibrosi, ma visitiamo pazienti provenienti da ogni parte d’Italia che vengono da noi  per l’ennesima visita di consulenza o perché vogliono sapere qualcosa che non gli è stato detto o perché  non sono convinti di quello che gli è stato detto o vogliono saperne di più, sapere, soprattutto se per questa malattia   è vero che non c’è proprio niente da fare".Per rispondere a tali esigenza  anni fa è  stato creato il Registro italiano delle mielofibrosi che intendeva stabilire una rete di  operatori sanitari - ematologi, patologi, chimici - coinvolti nella gestione di questa patologia per diffondere le informazioni oltre che per meglio organizzare la ricerca. "L’obiettivo era quello di smettere di far girare i pazienti ed iniziare a far girare le informazioni in rete ma il  progetto , che pure aveva raccolto le adesioni di tutte le ematologie non lo ha raggiunto per carenze  economiche, di personale e forse anche di volontà degli operatori.” "L’associazione è l’evoluzione del Registro : è nata per cercare di andare incontro ai bisogni del paziente che non possono essere esauriti nell’incontri  in ambulatorio"
Risponde ad un’analoga esigenza anche una specifica sezione del sito  del Progetto Agimm
(AIRC-Gruppo Italiano Malattie Mieloproliferative) che riunisce sette gruppi di ricerca per un totale di  68 ricercatori, coordinati da Alessandro Maria Vannucchi dell'Azienda Ospedaliera Universitaria di Careggi.
Il Progetto Agimm e le nuove frontiere nello studio del DNA - Il progetto è nato con l'intento di definire ulteriormente i meccanismi molecolari responsabili di queste malattie, identificarne nuovi marcatori e nuovi, bersagli terapeutici.Sono i ricercatori stessi a rispondere alle domande dei pazienti che possono così avvalersi di un'informazione autorevole e aggiornata, evitando le insidie allarmistiche spesso datate del web. Alla tavola rotonda di Pescia  Paola Guglielmelli, del team dell'Ematologia di Careggi e ricercatrice del Progetto Agimm, ha parlato dei nuovi studi del DNA che devono avere "...una ricaduta nella gestione del paziente . In realtà lo studio nel DNA si è progressivamente negli anni  semplificato  nel senso che fino a qualche anno fa era estremamente dispendioso. Abbiamo visto che i pazienti con mutazione V617F Jak 2 hanno un maggior rischio trombotico, se la carica allelica è molto alta si associa ad un maggior rischio di evoluzione in MF, hanno spesso splenomegalia. Quindi lo studio del DNA ci definisce anche una prognosi del paziente, ci offre una possibile caratterizzazione di quello che può essere l’andamento. E questo anche per la mutazione CARL,caratteristica spesso di pazienti più giovani, con un alto numero di piastrine, meno rischio trombotico e, sembrerebbe, anche  con  un andamento più favorevole nella mf. Questa differenza non è importante solo  per la diagnosi, ma anche per definire la prognosi".Negli anni si sono anche cercate altre mutazioni non esclusive delle MPN ma presenti  in tante altre patologie; non importanti perciò dal punto di vista diagnostico ma ha con  un’elevata importanza da quello prognostico:"Questi geni mutati spesso si associano ad una prognosi  peggiore. Come pure sulla prognosi influisce il numero di tali mutazioni. Non è sempre facile fare queste indagini, non tutti i centri le svolgono, sono costose, e non necessariamente tutti devono fare questo tipo di indagini perché ad oggi non c’è per certi pazienti un’esigenza di cambio di terapia "
Le domande dei pazienti -  Una parte dell’incontro è stato dedicato alle domande dei pazienti  a cui hanno risposto gli specialisti presenti. Riportiamo quelle di carattere generale.
D.Ci sono limiti di età per partecipare ai trial o per assumere i nuovi farmaci?
R-G.Barosi- I criteri di esclusione dai trial vanno distinti secondo me da quelli che sono i criteri di esclusione nella pratica. Ma neanche i protocolli  per lo studio del ruxolitinib riportavano un limite di età. Quando si apre un trial è ovvio che per problemi di tossicità che il farmaco può avere si individuano dei criteri di esclusione che, in genere, sono  sempre gli stessi come  gravidanza, insufficienza renale, grave insufficienza  epatica, precedenti tumori. Non è detto però che questi diventino criteri di esclusione nella pratica: ad esempio,  se il paziente ha una modesta insufficienza renale si può ridurre  la dose del farmaco. Nel caso del ruxolitinib  vi può essere  esclusione per chi ha avuto un’infezione virale latente o pregressa (ad esempio l’epatite virale cronica) perché si è dimostrato che il farmaco può riattivarla,  ma anche in questo caso vi può  essere una copertura specifica con farmaci antivirali.  Sono inoltre stati segnalati alcuni casi di riattivazione della tubercolosi ed in questo caso il meccanismo è conosciuto Sono stati segnalati alcuni casi sia durante  di riattivazione di tubercolosi  perché il ruxolitinib, oltre ad essere un immunosoppressore dimnuisce la citochina tnf che è la stessa che viene ridotta  da altri farmaci che si usano per l’artrite reumatoide. Chi ha  l’artrite reumatoide e assume farmaci riduttori del TnF  deve stare attento perche c’è un rischio  di riattivazione della tubercolosi. In questi  casi vengono  effettuati dei test specifici e praticata  una profilassi.Credo che anche per il ruxolitinib  ci si debba comportare come con gli altri farmaci e procedere ad una profilassi. Vi sono poi delle controindicazioni di tipo ematologico, come il numero delle piastrine che  non può essere  troppo basso in quanto il farmaco stesso provoca piastrinopenia. Questo il livello si sta abbassando: all’inizio era di100.000 piastrine ma orasono ammessi pazienti anche con un numero di piastrine non inferiore alle 50.000.
D -  Qual è la  ricaduta concreta su un paziente deelle nuove conoscenze sui  rischi molecolari ?  Un maggior rischio molecolare può comportare l’indicazione al trapianto ad esempio in pazienti che si avvicinano al limite di età in cui possono effettuarlo?
R - P. Guglielmelli – I dati che noi abbiamo sono retrospettivi: siamo andati a valutare alterazioni molecolari e  partiti da dati molecolari che  avevamo per poi correlarli all’andamento della malattia. Non esistono le condizioni oggi per dire che un utilizzo di queste informazioni  sia necessario per procedere  al trapianto anche se sicuramente questo potrebbe aiutare in futuro. Secondo me la caratterizzazione del paziente potrebbe essere utile al limite di età del trapianto, che comunque oggi è salita anche a settanta anni. Quello che noi facciamo  è quello di cercare di caratterizzare tutti i pazienti. Anche se finora ci siamo indirizzati soprattutto alla ricerca, questa deve avere comunque  una ricaduta clinica tanto che cerchiamo di inserire queste informazioni anche negli score  prognostici, per meglio identificare quel paziente che potrebbe usufruire del trapianto. Il gruppo AGIMM cerca di offrire l’opportunità di caratterizzare quei pazienti per capire quando è il momento migliore per effettuarlo..  Quello che  abbiamo visto è  che ci sono mutazioni già presenti alla diagnosi, mentre altre se ne possono aggiungere nel corso della malattia. Il significato prognostico sembra non cambiare. Poi ci sono altre mutazioni che possono essere legate ad un maggior rischio di evoluzione in leucemia  acuta. Ma l’indicazione c’è quando soprattutto esiste un’indicazione anche clinic.
G. Barosi – E’ in atto  un progetto  di esperti internazionali di produzione di raccomandazioni per il trapianto nella mielofibrosi. Se la domanda è sela mutazione  modifica l’indicazione al trapianto e in quale categoria di pazienti può modificarla, la risposta è in quelli quelli che secondo IPSS International Prognostic Scoring System)- che non include queste mutazioni,  cadono in un basso rischio, perché se secondo l’IPSS il paziente rientra già nel rischio il rischio medio alto  è superfluo valutare anche le mutazioni in quanto  sussiste  già l’indicazione al trapianto. Nel basso rischio invece si potrebbe  sottovalutare una piccola categoria di pazienti che di fatto sono ad alto rischio Pertanto questo gruppo di esperti ,  pur non essendoci una evidenza sulla importanza di fare queste analisi delle mutazioni,  raccomanda di cercare nei pazienti a basso rischio alcune mutazioni e  in particolare l’ ASXL1, la più frequente  che, se positiva potrebbe suggerire l’approccio trapiantologico. 
D -Vi sono studi sulla correlazione tra fattori di ambientali e incidenza delle malattie mieloproliferative croniche?

R - G.Barosi -La correlazione  tra ambiente e malattia è tra le più difficili da accertare, si riesce a documentare solo quando è molto vasta. Un caso noto è la correlazione tra calzaturifici di Vigevano che usavano una colla contenente benzolo e la diffusione nella zona di malattie mielodisplastiche,  e sicuramente anche di malattie mieloproliferative. Ma nel caso di uno  studio condotto da Hoffmann  sulla  relazione tra  un aumento di casi di PV n uno stato USA con l’esistenza di impianti di inquinanti il  risultato non è stato così certo. Il sospetto di correlazione tra sostanze tossiche e mieloproliferative  può esserci e varrebbe la pena  che ci fosse una sensibilizzazione,  compito che spettaerebbe  alle  ASL .
D.C’è differenza nell’anziano e nell’adulto rispetto a persone di più giovane età nel contrarre la malattia anche in riferimento all’esposizione a fattori ambientali?
R P.Guglielmelli -Sicuramente per le persone adulte o più anziane c’è una predisposizione maggiore. Il meccanismo è semplice : c’è una mutazione del DNA provocata da un fattore ambientale che non viene riparata. Tutti noi nella nostra vita abbiamo centinaia,  se non  migliaia di mutazioni di geni perché il nostro DNA non è perfetto e nella replicazione si altera. Però siamo stati anche capaci nell’evoluzione di formare dei meccanismi di riparo . La maggior parte delle mutazioni vengono riparate.
G.Barosi -Sono usciti due lavori recenti sul New England che mutazioni somatiche cioè non quelle alla nascita ma quelle acquisite, correlandole all’età. Dopo i 70/ 80 anni c’è una frequenza di mutazioni somatiche,
I più giovani sono meno predisposti a subire gli effetti tossici,  e inoltre le mutazioni possono essere più facilmente  riparate e quindi non si ammalano. Gli anziani sono più predisposti a subire effetti tossici e possono sviluppare mutazioni che più difficilmente vengono riparate,  ma magari non si ammalano perché non hanno il tempo di sviluppare la malattia.

D-Perché se la carica allelica della mutazione genetica viene ridotta o annullata, la malattia non guarisce? 
R- G.Barosi - Queste malattie non sono dovute alla mutazione Jak 2 ma sono dovute a qualcos’altro che noi ancora non conosciamo. E’ molto probabile che ci sia un clone. Malattie clonali vuol dire che da una cellula che si ammala si forma un gruppo di cellule che si trova  in mezzo alle cellule sane del midollo che si ammala. Il Jak 2 è un clone, ma non è tutto il clone della malattia e ci si ammala non perché si è positivi al Jak 2  che semmai determina il fenotipo (il paziente può diventare poliglobulico, gli può aumentare la milza ...)  La malattia è qualcosa di più ampio del Jak2. E’per quello che l’interferone, ma anche il ruxolitinib,  possono eliminare il  jak 2 ma non eliminano   la malattia perché il clone più grosso rimane.
D.E c’è correlazione tra quantità del gene mutato e sopravvenienza di altre mutazioni prognosticamente sfavorevoli?
R- Barosi - Non è mai stato documentato.  Anzi potrebbe essere vero esattamente l’opposto
D -Abbiamo dei criteri prognostici che classificano l’alto o il basso rischio per pazienti con TE e la PV?
R - P.Guglielmelli -Forse una carica allelica superiore al 50% potrebbe comportare un maggior rischio di evoluzione in mielofibrosi,  però ci sono pazienti che ce l’hanno e che non evolvono. E ci sono pazienti con carica inferiore  al 50% che evolvono.
( a cura di Antonella Barone)

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