venerdì 6 maggio 2011

DIECI ORTOPEDICI E UN GAMBA

Il concetto di raro ha una sua declinazione al relativo. Esistono delle malattie rare in senso assoluto, ma per alcuni medici, confinati nelle rispettive discipline specialistiche, sono rare alcune patologie solo perché nella loro esperienza non ne hanno mai affrontata una.
Oppure vi sono dettagli rari di malattie comuni che spingono anche gli specialisti ad un atteggiamento cauto e dilatorio. Oppure una patologia rara, combinata con una comune, rende rara la malattia comune.
Nel mio caso si è trattato di tutto questo e di molto altro.

Tutto inizia a gennaio, su una vasta ed assolata pista dell’Alta Val Badia. Sto scendendo tranquilla, quando mi ritrovo a girare su me stessa spinta da un vortice d’aria, poi mi sento sollevare “ad angelo” e scaraventare a terra. Neanche riesco a vederlo, l’autore della sciagurata figura che si allontana con gli sci, per niente rallentato dall’incidente.
“ Rottura del legamento crociato anteriore e lesione del collaterale interno” diagnostica il dott. Primo, il guru della traumatologia altoatesina. Lo informo della mia patologia rara, ma la ritiene irrilevante per la terapia: “Esercizi isometrici, eparina, ghiaccio, antinfiammatori”, dunque mi avvolge in un tutore, mi attrezza di canadesi e mi saluta rassicurante: non sarò che una dei tanti che continuano a sciare con qualche legamento rotto.
Tutto procede secondo le previsioni, se non fosse che il ginocchio, anche dopo settimane, non accenna a sgonfiarsi. La risonanza magnetica mostra solo una vasta nebulosa che potrebbe nascondere di tutto.
“Te credo, l’hai fatta alla Santa Cesira!”mi rimprovera Alfonsina, “Con’ quell’attrezzatura c’hanno fatto la risonanza a Giulio Cesare! Dovevi annà alla Super Bios che c’hanno la machina a 3 tesla!”
Alfonsina è il coach sanitario mio e dell’intero condominio. Sola, con tre figli- uno in comunità, uno all’università e uno disoccupato – mantiene tutti con iniezioni a domicilio e con le pensioni dei genitori quasi novantenni alla cui salute tiene ovviamente molto. Sa tutto in materia di ospedali, ambulatori convenzionati. pensioni d’invalidità , esenzioni ed assegni d’accompagnamento, ma anche di malattie e medicine. Se è domenica e ti manca un farmaco, prima di cercare la farmacia di turno,chiedi a lei. Ad Alfonsina nulla è impossibile: Parla con primari, entra fuori orario visite, conosce caposala in tutti i reparti ed ha informatori nei punti strategici .Naturalmente mi consiglia un ortopedico, ma io preferisco seguire i consigli di amici e parenti.

Il dott. Secondo mi è stato consigliato da un’amica. E’ molto giovane, ma ha la barba bianca e l’aria ascetica. Ha l’abitudine di riflettere a voce alta. Quando sa della malattia rara, si fa delle domande, non si dà delle risposte, confabula con internet, poi mi prescrive doppler ed ecografia, e subordina tutta la terapia - tecar, eparina, al consenso dell’ematologo. Quest’ultimo approva mostrandosi piuttosto sorpreso per il quesito. Procedo e il dott. Secondo mi autorizza ad iniziare la fisioterapia.
Ma il ginocchio è ancora gonfio e la gamba mi fa spesso male.

“Altro che fisioterapia, meno movimento possibile”sentenzia il dott. Terzo che mi ordina di recuperare le canadesi, abbandonate da tempo, e di indossare un nuovo modello di tutore dal costo di appena 500 euro. Il dott. Terzo mi è stato consigliato da mia madre. Costa molto ed ha un pessimo carattere che sembra gli procuri molta popolarità tra le persone anziane.
“Bisognerebbe operare” sbraita, ma con la sua patologia ematologica sarebbe pe-ri-co-lo-si-ssi-mo”.Vorrei dirgli che con forme anche più gravi, alcune donne affrontano gravidanze e lifting, ma mi liquida in pochi secondi , non avendo mancato di informarmi che la mia assicurazione lo paga solo 10 euro a visita.

Preferisco le esitazioni del giovane Secondo alle certezze di Terzo e inizio la fisioterapia. Dopo un paio di settimane sono in grado di camminare senza canadesi e guidare l’automobile. Segnalo a Quarto, l’ortopedico del centro dove faccio la fisioterapia, un certo indolenzimento alla gamba che attribuisce al mio sbagliato modo di camminare.
Ma una sera il fastidio al polpaccio esplode un dolore acuto che m’impedisce anche di appoggiare il piede. Quello che più mi preoccupa è la gamba, gonfia e bruciante. Ho ben presenti i rischi di trombosi legati alla mia malattia, ma al reparto di ematologia non risponde nessuno e Secondo è in settimana bianca. E’ venerdì: non resta che il Pronto soccorso
Proviamo con quello del Policlinico Vittorio Emanuele. Una fila di persone in attesa di raggiungere il Triage si snoda all’esterno dell’edificio. Un infermiere m’informa che la durata dell’attesa non è calcolabile, ma “ a occhio e croce se farà giorno”. La seconda opzione e il Pio XII: triage immediato, ma tempo d’attesa stimato di 4 ore e mezza, da trascorrere su panche di metallo perché non sono disponibili barelle e sedie a rotelle.
“Và al San Silvio che nun c’è mai nessuno” mi consiglia Alfonsina “Tanto nun è che devi esse operata”.
Ma è tardi e sono stanchissima.Decido di mandare un sms allarmato a Secondo che mi richiama poco dopo.
“Ghiaccio e un po’ di riposo e passa la paura” dice con improvvisa sicurezza. Lasciamo sollevati il pronto soccorso e torniamo a casa.

Alle cinque di mattina un’ambulanza mi porta al Francesco Cossiga, ospedale di zona. La gamba mi fa sempre più male e l’antidolorifico non mi fa effetto. Viene subito chiesta la consulenza dell’ortopedico Quinto che mi prescrive doppler, ecografia ed “osservazione ortopedica” per 12 ore, vale a dire collocazione in un locale separato da una tenda dal suo ’ambulatorio.
“Al Cossiga! So c….i tua ” esclama Alfonsina “ Dovevi chiamà l’ambulanza privata. Costa un po’, ma poi sceje l’ospedale e poi arivi in barella,così è più facile che te diano il codice rosso”.
La mattinata trascorre veloce: tra un esame e l’altro mi visita il dott. Sesto il quale, benché gli mostri ansiosa la gamba sempre più gonfia e lucida, mi siringa con entusiasmo il ginocchio. Sono comunque più serena perché eco e doppler sono negativi, le 12 ore sono passate e posso tornare a casa.

“Non si dimette mica una con una gamba così!” dice invece il dott. Settimo, il nuovo ortopedico di turno, mentre guarda costernato la mia gamba che inizia a somigliare ad un grosso wusterl bollito. “altre 12 ore di osservazione, doppler, eco e ghiaccio”
“ Ma doppler ed eco li ho già fatti!” dico io.
“ Il ghiaccio non c’è!” dice l’infermiere, scandalizzato dalla richiesta ( apprenderò che nonostante l’umile elemento di cui è composto, il ghiaccio non è disponibile nei pronti soccorso romani)
Sono da circa 20 ore in osservazione e, a parte un antidolorifico e il ghiaccio, che non c’è,non mi è stata assegnata nessuna terapia.
Deduco che “osservazione” significa aspettare che qualcosa accada.

Nell’osservazione ortopedica del Francesco Cossiga siamo uomini e donne, separati da tende verdi. C’è un gran via vai di “femori”, come dicono gli addetti ai lavori.Sembra che le notti del fine settimana i vecchietti si diano alla pazza gioia come adolescenti lasciati soli a casa dai familiari. Per fortuna che ho con me tranquillanti e riesco a dormire per un paio d’ore.
Al mattino ricomincio il giro di doppler ed eco, ancora negativi. Quando torno mi trovo ad ascoltare da dietro la tenda verde, la discussione tra Settimo, smontante, e Ottavo, all’inizio del turno. Non sento tutto, ma abbastanza da capire che non sembrano d’accordo su qualcosa che riguarda proprio me. Nel frattempo Antonio che non vedo dal mio ingresso -perché le visite dei parenti in questo reparto non sono ammesse- sta bussando alla porta dell’ambulatorio per avere mie notizie. Uno dei medici apre e prova ad allontanarlo sgarbatamente. Conoscendo Antonio, temo subito il peggio e, infatti, lo sento elencare reati e minacciare l’intervento delle forze dell’ordine. Mentre forza la porta ed ha la meglio sul medico che spinge in senso opposto faccio a mia volta incursione nella stanza. I due medici ci guardano disorientati dall’imprevisto accerchiamento Dico loro che da quello che ho sentito non hanno nemmeno letto la mia cartella clinica e non sanno che all’origine della cautela c’è il timore di trombosi correlato alla mia malattia rara.. Chiedo di essere dimessa oppure curata. Si scusano frettolosamente attribuendo ad altri la mancata informazione dichiarano che la mia gamba non è di loro competenza. “ Ma del box medico!” esclamano illuminandosi, ora in perfetto accordo nello scaricare ad altri il mio caso.

Il box medico è un locale con finestre a livello strada che consentono ai passanti di osservare comodamente all’interno il via vai di barelle, flebo, monitor e padelle.. Al centro c’è una a specie di consolle con fax e computer attorno alla quale si agitano persone in camice bianco e divise verdi. Siamo tutte donne, di tutte le età quasi tutte immobilizzate. D’ora in poi lo sono anche io perché mi piombano addosso medici e infermieri, mi fanno prelievi e infilano aghi con improvviso accanimento. La mia barella è tra una donna che sta facendo una trasfusione ed una ragazza che impreca e sputa contro le infermiere. Davanti ho invece un’anziana del tutto cieca. La ragazza chiede le sue scarpe, la cieca chiede del marito, la donna chiede la padella. Il tutto inutilmente perché tutto il personale è indaffarato attorno alla consolle. La donna mi spiega che i pannoloni sono troppo sottili e tenuti troppo a lungo, mentre per le padelle bisogna fare la fila. La ragazza alla mia destra si è alzata e vestita e cerca di guadagnare l’uscita,scalza e con gli aghi ancora nelle vene. Le infermiere la rincorrono e riescono a metterle le scarpe ma non a sfilarle gli aghi. La sento gridare in corridoio poi la vedo trascinare a fatica nella stanza: morde, sputa, graffia. Ma quando la spingono sul letto inizia un lamento acuto e monocorde...Seguo i gesti energici delle infermiere per tenerla ferma e fissare una serie di cinghie grigie. A mano a mano che le immobilizzano gli arti, aumenta il volume del lamento che ora somiglia ad una sirena d’allarme. La voce è l’ultima arma di difesa.. Ma ancora per poco. Arriva un medico, una donna alta e risoluta, che mentre infila un ago in quel corpo ancora sussultante, alza la testa di scatto proprio verso me e mi grida “E lei si giri dall’altra parte!”. La familiarità della scena mi colpisce come uno schiaffo e mi provoca la stessa rabbia di sempre . Non sono abituata a girarmi dall’altra parte, rispondevo così anche quando lavoravo in carcere. Alza le spalle con disprezzo per la mia evidente ed inutile indignazione ed anche questa reazione mi è familiare. Quando la disperazione diventa pericolosa, non si può guardare per il sottile. La vicina di sinistra m’informa che.da ieri la giovane è stata contenuta più volte, per evitare che mangiasse le proprie feci e orinasse nelle scarpe.
E’ una senza fissa dimora, arriva ubriaca, zoppicante, piena di lividi. Contenerla, dicono le infermiere, secondo la dottoressa è un po’ un modo per proteggerla. Insomma in qualche modo se ne prende cura…Vorrei chiedere se c’è un’assistente sociale, ma arriva un chirurgo con notizie per me,devo essere operata d’urgenza: fascectomia. Grazie all’ I phone,so bene di cosa si tratta: ti sbucciano la gamba come una banana, ripuliscono i muscoli e lasciano il tutto aperto finché non si rimargina da solo.
“Scappa via, a gambe levate”mi grida Alfonsina snocciolando tutta una serie di casi di malasanità riguardanti il Cossiga.Se proprio devo essere operata meglio andare al San Candido dove c’è il chirurgo che ha salvato la madre.”Anzi, mò lo chiamo …”

Dopo un’ora dopo, ancora con le cannule nelle braccia, la gamba incandescente arrivo al pronto soccorso del San Candido. Solito Triage, ma breve attesa perché racconto della fascetomia urgente. Ed ecco qua il consulente ortopedico dott. Nono che guarda la gamba e sorride. “Antibiotici, posizione declive e ghiaccio”. Mi mettono in uno stanzone dove la mia barella si fa spazio a stento tra le tante. Ottengo la posizione antideclive grazie all’inventiva di un infermiere che infila sotto i piedi un bidone. Per il ghiaccio anche qui niente da fare. Antonio viene mandato via e capisco che in qualche modo dovrò passare la notte. L’ideale sarebbe dormire ma la luce al neon non viene mai spenta perché pazienti vanno e vengono. Mi copro gli occhi con la sciarpa e prendo una doppia dose di tranquillanti. Sono svegliata da un dolore acutissimo la flebo con l’antidolorifico si è bloccata da stanotte ma nessuno se n’è accorto- non mi lavo da giorni, ho la bocca impastata - ieri sera non ho cenato. Il medico riscontra un lieve miglioramento ma devo stare ancora in osservazione, non ore, giorni probabilmente, in barella, immobile, sotto il neon. Voglio dire ad Antonio di portarmi via subito, ma il cellulare è ormai scarico. Inizio a piangere, i miei vicini si girano con discrezione ma un’infermiera mi allunga un cellulare: “E’ Alfonsina”mi sussurra complice.
“Guarda che al Vittorio Emanuele c’è di guardia Decimo che ha operato papà al femore. Ti sta aspettà, a quest’ora al pronto soccorso non c’è gente”
L’attesa delle dimissioni mi viene risparmiata da una nuova ondata di barelle in ingresso che mi sospinge verso l’uscita. La dottoressa legge in fretta e con lieve ironia la formula di rito “Devo avvertirla dei rischi a a cui va incontro ecc. ecc.”Mi prescrive i farmaci, firmo e ancora via.
E' domenica mattina, non c'è traffico.

Il pronto soccorso del Vittorio Emanuele è immerso nel silenzio,le sedie a rotelle sono allineate e vuote come barche a riposo in attesa di riprendere il mare. Come mai alla stessa ora dello stesso giorno un pronto soccorso sia affollato e l’altro no, è un mistero ( che magari potrebbe essere chiarito per razionalizzare il traffico?. Stavolta me la cavo con solo mezz’ora d’attesa prima di incontrare il dott. Decimo, propostomi da Alfonsina all’inizio delle mie peripezie.
Il medico si pone due semplici domande: cosa ha causato l’ematoma e come curarlo. Dunque consulta la ricca documentazione medica che mi sono portata dietro tutti questi giorni e che nessuno ha mai guardato con la dovuta attenzione. Da un’ecografia emerge che il versamento al polpaccio è presente da sempre: con la cardioaspirina, la fisioterapia forse energica e troppo precoce, è aumentato. La causa non è nella malattia rara ma probabilmente nella cardioaspirina. Seguo le sue prescrizioni nell’unico luogo dove è possibile avere ghiaccio, immobilità e posizione declive, senza piaghe da decubito, e dove posso lavarmi tutti i giorni , cioè casa mia. Prendo scrupolosamente i farmaci e poi inizio una cauta fisioterapia a casa. La gamba si sgonfia e un mese dopo sono in piedi.

Il concetto di raro ha una sua declinazione relativa. Oggi basta entrare in un pronto soccorso per non sentirsi diversi. Infatti gli ospedali sono democratici: ci rendono tutti uguali, tutti molto più che rari, tutti indistintamente SOLI.
Basta saperlo. Così ci si può portar dietro l’indispensabile per sopravvivere. Come tappi di cera, mascherina, sonniferi, pannoloni, due cellulari carichi di cui un IPhone per cercare su google chiarimenti sulle diagnosi, spedire mail di denuncia ai giornali o le vostre ultime volontà ad amici e parenti. Ah, frigo portatile per il ghiaccio in caso di contusioni o fratture. Ricordatevi che il tutto deve essere di piccolo formato perché i pronti soccorso sono gli unici luoghi in cui i metri cubi per paziente sono inferiori a quelli per detenuto nelle carceri e, come in carcere, quello che è troppo ingombrante viene restituito ai parenti.
Il rosario non presenta problemi di spazio ed è di sicuro conforto per i credenti. Anche a loro e agli altri, consiglio un libretto che sta anche nella tasca del pigiama, scritto da Stéphane Hessel, 93enne sopravvissuto ai campi di sterminio tedeschi. Il titolo è “ Indignatevi” e, vi assicuro, in certi momenti, aiuta.

Antonella C. Barone



Ho cambiato i nomi degli ospedali e dei medici, ma quello che racconto è realmente accaduto.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

E' spaventoso questo racconto!!!!
la tua malattia e' la trombocitemia? ma come la curi? solo con la cardioaspirina ?

antonella.amalberti@teletu.it

Unknown ha detto...

È tristemente vero tutto ció che hai scritto, ma stupefacentemente piacevole grazie alla tua scrittura!

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