lunedì 11 aprile 2016

MYSEC: il primo modello prognostico per la mielofibrosi secondaria

La mielofibrosi (MF) secondaria  può verificarsi come evoluzione della trombocitemia (TE) o della policitemia vera (PV)  in genere, dopo una o due decadi di  malattia e in misura crescente con la durata di  questa. Gli studi esistenti non la trattano in maniera differenziata: definiscono  principalmente  se non esclusivamente il rischio nella MF primaria e stratificano i pazienti sulla base delle loro caratteristiche cliniche e molecolari. Il recente MIPSS ( Mutation -Enhanced International prognostic sdcoring system), nell’ambito della mielofibrosi primaria, ad esempio,  ha evidenziato la profonda eterogeneità clinica e molecolare che li contraddistingue, individuando aspettative di vita che oscillano da 2/3 anni dalla diagnosi sino ad oltre 25, in presenza di determinati requisiti: queste informazioni consentono già adesso di gestire in maniera più efficace ogni singolo paziente, intervenendo tempestivamente nei casi ad alto rischio e, di converso, non gravando inutilmente i pazienti a basso rischio di pesanti e inappropriate terapie farmacologiche.
Le prime informazioni sulle  caratteristiche cliniche e molecolari che assumono rilevanza prognostica anche nella MF secondaria si devono al MYsec prognostic model presentato nel dicembre del 2014 che ha analizzato la spettanza di vita di 718 pazienti colpiti da mielofibrosi secondaria (49% da post PV, 51% da post TE); ad ogni dato clinico di un singolo paziente è stato assegnato un punteggio: 3 punti per l’età maggiore di 65 anni, 2 punti per il tempo di trasformazione superiore a 15 anni, per la presenza di sintomi costituzionali, per storia di pregressa trombosi e per blasti circolanti in misura superiore all’1% ed infine un punto per i pazienti con emoglobina inferiore a 10g/dl (http://www.bloodjournal.org/content/124/21/1826) .
Queste informazioni hanno permesso di stratificare i pazienti in tre categorie: per chi totalizzava da 0 a 2 punti, non è stata individuata un’aspettativa di vita, mentre essa è risultata essere di 8 anni nei pazienti con punteggio da 3 a 6 e di 4 anni per i pazienti con punteggio superiore a 6.
Successivamente al dato clinico, un’analisi molecolare approfondita, condotta del gruppo AGIMM,  ha permesso di identificare anche quali siano le mutazioni rilevanti e prognosticamente sfavorevoli (http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/27037840) : a differenza della mielofibrosi primaria, dove la mutazione della Calr viene associata a un notevole vantaggio in termini di sopravvivenza rispetto alle altre mutazioni driver e in particolar modo ai pazienti tripli negativi (vale a dire negativi alle tre mutazioni driver Jak2, Calr, Mpl), nella mielofibrosi post TE questo andamento è solo parzialmente confermato, a riprova del fatto che i pazienti tripli negativi costituiscono un’entità molto eterogenea e solo un’adeguata analisi approfondita a livello molecolare può consentire di discriminare efficacemente al loro interno per stratificarne il decorso clinico.
Tuttavia, delle mutazioni ad alto rischio molecolare nella mielofibrosi primaria, solo la mutazione ASXL1 (per la mielofibrosi post PV) e SRSF2 (per la mielofibrosi post TE) sono risultate associate a una sopravvivenza ridotta: per quanto concerne il rischio leucemico, i ricercatori hanno evidenziato una significativa correlazione tra il numero di mutazioni ad alto rischio e l’evoluzione in leucemia nella mielofibrosi post PV, mentre nei casi di mielofibrosi  post TE è emerso il ruolo determinante della mutazione TP53 nella progressione alla fase leucemica di questi pazienti e, in generale, nell’aspettativa di vita.
Questi importanti dati aprono la strada verso una conoscenza più approfondita delle mielofibrosi secondarie a  TE e PV sebbene non siano ancora emerse le mutazioni determinanti nella progressione di queste malattie, un’accurata conoscenza e diversificazione di esse quando la trasformazione ematologica si è già verificata consentirà, come avviene già nelle mielofibrosi primarie, un monitoraggio più accurato dei pazienti, interventi terapeutici più adeguati e specifici e, grazie all’individuazione di quali siano i bersagli molecolari da colpire, all’introduzione in un futuro non troppo lontano di una target therapy capace di cronicizzare (e magari, dati i risultati promettenti dell’agente antifibrotico prm 151, rendere reversibile) la malattia, come già avvenuto efficacemente in altre patologie del sangue. (D.S.)


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